La specie beneficia oggi di nuove varietà e nuovi modelli d’impianto, ma per assicurare risultati produttivi ed economici adeguati ha necessità di un’attenta sperimentazione e di assistenza tecnica.
La coltivazione del mandorlo diviene sempre più oggetto di attenzione da parte dei frutticoltori del Meridione d’Italia e non solo; questo si evince dalla costituzione di impianti che sorgono anche in aree non storiche per la specie (sul litorale laziale, a Fiumicino, sta sorgendo il più esteso mandorleto del nostro Paese) e dalle innumerevoli piccole realizzazioni e dai test di valutazione vocazionale alla coltivazione che si verificano dal Piemonte alla Sicilia. Oltre che al successo commerciale, comune a tutto il comparto della frutta secca, questa attenzione è anche dovuta alla disponibilità di nuove varietà a fioritura extra-tardiva.
Questo incremento non trova riscontro nei dati statistici nazionali, anche se i nuovi impianti non sfuggono all’attenzione di chi frequenta gli ambienti agricoli. Infatti, nel 2018 l’Istat riportava una superficie totale coltivata di 59.465 ha, in forte riduzione rispetto ai 68.437 ha di dieci anni prima. I dati censiti in Italia non rappresentano la realtà del comparto. Infatti, se pensiamo che il settore vivaistico nazionale produce circa 1,5 milioni di piante/anno, di cui il 30% è destinato all’esportazione, ne deriva che nel Paese si costituiscono circa 3.000 ha/anno di nuovi mandorleti, a cui vanno aggiunti quelli ad alta densità con raccolta in continuo (“Super-High Density” – SHD) che crescono al ritmo di circa 200 ha/anno (400.000 piante).
A testimonianza del sempre maggior interesse verso questa specie, il rapporto “Innova Market Insights’ Global New Product Introductions 2020” individua la mandorla al primo posto tra le novità alimentari a base di frutta secca in Europa, con ben 5.416 nuovi prodotti che la includono tra gli ingredienti, primato confermato nell’ultimo quinquennio.
Come viene oggi interpretata la nuova mandorlicoltura nazionale? Di seguito alcuni dati tecnici dell’attuale sviluppo della coltura.
La scelta varietale
Tra le varietà italiane, le uniche piantate sono Filippo Ceo, Genco e Tuono, autoctone e autofertili, di origine pugliese, che ben si adattano ai differenti ambienti di coltivazione. Tutte le altre varietà – su tutte Pizzuta d’Avola e Fascionello – hanno diffusione in limitatissime aree dove esprimono le loro caratteristiche di pregio, risultando non idonee al di fuori di esse per il basso fabbisogno in freddo e le fioriture extra-precoci.
Tutti i vivaisti italiani che producono mandorlo annoverano nel proprio catalogo la varietà Tuono, autoctona pugliese, auto-fertile, con bassa percentuale di semi doppi (10% circa), fino a qualche anno fa ritenuta, tra le cultivar coltivate, quella a fioritura più tardiva. Le caratteristiche di pregio di Tuono fanno sì che la stessa costituisca uno dei parentali più utilizzati nei programmi di breeding internazionali. La spagnola Guara e l’italiana Supernova, per varie vicende ritenute varietà distinte, sono invece ora considerate suoi cloni (Palasciano et. al., 2016, Marchese et al., 2008). Filippo Ceo e Genco sono molto utilizzate e apprezzate negli areali produttivi del barese e del basso foggiano.
Le uniche varietà francesi degne di essere menzionate sono Lauranne (Avjior) e Ferragnes. La prima deriva dall’incrocio Ferragnes x Tuono e ha preso il meglio dei due genitori: qualità della mandorla, auto-fertilità e fioritura tardiva. Risulta la più utilizzata negli impianti SHD e inizia ad essere diffusa anche in quelli tradizionali. Ferragnes (derivata dall’incrocio Cristomorto x Ai), proposta in Italia negli anni ‘80, fu tra le varietà maggiormente consigliate nell’ambito dei programmi di sviluppo rurale (POP, POR, PSR) delle regioni meridionali. Pur se caratterizzata da un seme di eccellenti qualità, ha mostrato i suoi limiti per l’auto-sterilità e l’incostanza produttiva negli ambienti pugliesi. Il fattore limitante più grave è l’elevatissima suscettibilità a fusicocco (Fusicoccum amygdali) che determina, a fine stagione, il totale disseccamento della chioma, causa poi della scarsa produttività; tutto ciò sta determinando il suo abbandono o il reinnesto delle piante con altre varietà.
Gli ultimi lustri sono caratterizzati da una proposta di varietà spagnole, provenienti da diversi programmi di breeding pubblici, che hanno permesso di proporre oltre 20 nuovi genotipi. Tra tutte queste, per la diffusione in Italia meritano di essere ricordate Soleta e Vialfas, proposte per impianti SHD, come anche Penta, Guara (di cui si è parlato in precedenza) e Vairo. Per le altre non sono ancora consolidati i dati del loro comportamento in condizioni di pieno campo.
Dagli Stati Uniti merita di essere menzionata la varietà Independence®, auto-fertile, premice (“paper shell”), a basso fabbisogno in freddo (< 400 CU), accompagnata dalla fama di rese in sgusciato di oltre il 50%. Attualmente non si hanno dati confermati del suo comportamento in Italia. Da sperimentazioni condotte e coltivazioni presenti in Tunisia, si hanno notizie che questa varietà mostra risultati interessanti in ambienti desertici, con rese in sgusciato anche oltre il 40%, mentre negli ambienti costieri ha mostrato difficoltà produttive e il difetto del guscio fessurato, aspetto questo non positivo per le contaminazioni da aflatossine che poi interessano il seme.
I portinnesti
I portinnesti utilizzati sono in numero limitato, se confrontati con le altre specie di drupacee.
Il franco di mandorlo (cv Don Carlo) è molto utilizzato dai vivaisti pugliesi e si conferma la migliore scelta per terreni poveri, poco profondi e ricchi di scheletro, con scarsità d’acqua o in asciutto. Il ricorso a varietà a seme amaro, ritenute più tolleranti alle infestazioni del coleottero buprestide Capnodis tenebrionis, è quasi nullo se confrontato con quanto avviene in altri Paesi produttori mediterranei.
Tra i portinnesti clonali, GF 677 e Garnem® (GxN 15) sono quelli più adoperati e trovano ampio utilizzo in svariati tipi di terreno, con o senza irrigazione. Garnem® si caratterizza per le foglie di colore rosso, per la buona tolleranza ai terreni salini e ai nematodi galligeni del genere Meloidogyne. Tutti questi portinnesti permettono la realizzazione di impianti tradizionali (350 piante/ha circa) e intensivi, fino a 800 piante/ha. Unico portinnesto idoneo per impianti SHD è il Rootpac® 20 Densipac che, per la sua scarsa vigoria, permette densità d’impianto di 2.000 piante/ha e oltre (Laghezza et al., 2018).
I sistemi di allevamento
I nuovi impianti di mandorlo sorgono con l’imperativo di favorire un livello di meccanizzazione più elevato possibile, sia per quanto riguarda la raccolta sia per la gestione della chioma.
Gli impianti tradizionali, con densità d’impianto tra 300 e 400 piante/ha, permettono la raccolta con scuotitore ad ombrello riverso e la potatura esterna della chioma con macchine che operano “topping” ed “hedging”, prevedendo operazioni manuali solo per l’eliminazione dei succhioni interni.
Sistemi ad alta densità d’impianto, con 700-800 piante/ha, sono proposti negli ultimi anni in Spagna; prevedono l’utilizzo di portinnesti vigorosi come GF 677 e Garnem e regimi nutrizionali ed irrigui assai spinti. Così operando, nel corso nei primi 2-3 anni di crescita si eseguono più cimature manuali o meccaniche ad altezze via via crescenti, dai 25 ai 50 cm, al fine di ottenere una ramificazione spinta della chioma, impalcata a 80-100 cm per favorire la raccolta meccanica con scuotitore al tronco. Al termine del 2° anno di crescita, prima del periodo di riposo vegetativo si provvede ad un alleggerimento e diradamento dei rametti interni alla chioma. Così operando si facilita l’illuminazione della parte interna della chioma e si favorisce un’ottima predisposizione per una buona produzione già dal terzo anno, con buona differenziazione di dardi fruttiferi, che di per sé operano da fattore regolatore e di equilibrio della struttura formata.
I “layout” d’impianto prevedono sia sesti di 5-5,50 x 2,50 m per raccolta delle mandorle in continuo con macchine scavallatrici tipo Tenias, sia sesti più larghi (5-5,50 x 4,50 m) da raccogliere con scuotitore al tronco. I sistemi di allevamento ad altissima densità con raccolta in continuo (SHD) sono già stati affrontati su questa rivista (Laghezza et al., 2016).
L’efficienza produttiva dei sistemi in parete
Interessante, dal punto di vista tecnico, rammentare la differente efficienza produttiva dei sistemi 3D, ovverosia di piante allevate in volume (vaso), comparata con quella dei sistemi 2D, ovvero di piante allevate in parete (SHD). Secondo studi comparativi eseguiti in Spagna da Ignasi Iglesias, un impianto di mandorlo superintensivo (2D), con distanza di 3,5 x 1,25 m (2.286 piante/ha), altezza della parete produttiva di 2,7 m e larghezza di 0,8 m, all’ottavo anno di produzione sviluppa una massa vegetativa complessiva di 5.715 m3/ettaro e una potenzialità produttiva di circa 2.280 kg/ha di seme.
Diversamente, un sistema tradizionale 3D, con distanze di 6,0 x 4,0 m (417 piante/ha), altezza e larghezza della parete produttiva di 4,0 m, all’ottavo anno di produzione sviluppa una massa vegetativa di 15.200 m3/ha e una potenzialità produttiva di circa 2.205 kg/ha di seme. Va da sé che, sebbene le rese per ettaro dei due modelli non si discostino molto, l’efficienza produttiva della vegetazione del sistema superintensivo sia superiore a quella del sistema intensivo, con valori che si avvicinano rispettivamente a 0,40 e 0,15 kg di seme per m3 di vegetazione (I. Iglesias, com. pers.).
La ricerca è fondamentale
Il mandorlo negli ultimi 10 anni ha attirato l’attenzione di imprenditori e tecnici che stanno rivisitando in chiave moderna una delle colture fruttifere di più antica tradizione nel nostro Paese. Questo processo avviene nella completa assenza di indicazioni dal mondo della ricerca e sperimentazione pubblica e, a lungo andare, questo aspetto potrà costituire un fattore di debolezza per il rafforzamento del comparto. L’espansione della coltura in nuovi areali, senza un’adeguata valutazione e validazione della vocazionalità degli ambienti di coltivazione e la scarsa esperienza di molti frutticoltori, sono la causa di molti errori e cattive pratiche agronomiche che poi influiscono negativamente sull’efficienza produttiva degli impianti e sui risultati economici finali.
Le criticità della mandorlicoltura nazionale
Tra le tante criticità dimostrate, appare utile segnalare l’errato orientamento dei filari negli impianti SHD, che determina drastiche riduzioni dei potenziali produttivi per l’ombreggiamento esercitato dalle piante l’una sull’altra; l’adozione di disposizioni d’impianto che non permettono una movimentazione adeguata delle macchine, con grandi perdite di tempo e scarsa efficienza d’utilizzo, o, al contrario, la costituzione di impianti che prevedono l’utilizzo di macchine non presenti in Italia o che necessitano di ampie superfici, considerato che le dimensioni medie delle nostre aziende sono di gran lunga inferiori a quelle spagnole, statunitensi o australiane.
Fattori da considerare nella progettazione del mandorleto
Al fine di ottenere i risultati attesi, vi é la necessità di creare progetti di mandorleti che tengano conto di una serie di fattori sia di natura aziendale, sia di vocazionalità del territorio. Oltre alle condizioni pedo-climatiche e a un’attenta valutazione della situazione aziendale, è di fondamentale importanza considerare:
- forma ed estensione della superficie da coltivare,
- possibilità e modalità di irrigazione,
- facilità di raggiungimento del luogo da parte di mezzi ingombranti,
- valutazione delle risorse aziendali in merito allo svolgimento delle operazioni di raccolta e potatura, disponibilità ad investimenti più o meno spinti in favore di una maggiore redditività, aspettative da parte dell’imprenditore, ecc. Questi sono solo alcuni dei fattori discriminanti che ci permettono di prendere decisioni adeguate (sesto d’impianto, varietà, portinnesti, ecc.) nella progettazione del mandorleto.
- Un aspetto importante riguarda l’idoneità delle singole varietà ad essere coltivate nei vari ambienti. Un esempio è quello della Guara che, in terreni forti e in condizioni di elevata densità di impianto, presenta elevatissima suscettibilità alla maculatura batterica da Xanthomonas campestris pv pruni, con gravissimi danni a vegetazione e produzione, con frutti difficili da gestire in fase di smallatura.
- Altro aspetto da sottolineare è la scarsità di mezzi tecnici per la protezione delle piante, in quanto molti fitofarmaci utilizzabili per altre drupacee non prevedono l’impiego su mandorlo, creando non pochi problemi per una corretta difesa e protezione da insidiosi organismi nocivi.
Sono queste solo alcune delle problematiche che rischiano di raffreddare gli entusiasmi e di frenare la rinascita di un settore che vedeva l’Italia primeggiare in campo mondiale fino agli anni ’60. L’auspicio è che al mandorlo siano indirizzate quelle attenzioni rivolte ad altre specie fruttifere, sia da parte delle istituzioni di ricerca e sperimentazione, sia da parte del comparto della formazione tecnica. C’è la necessità di rafforzare il bagaglio di conoscenze e di operatori in grado di interpretare in maniera razionale e competitiva una coltura che può dare soddisfazioni e creare una valida alternativa in aree e per settori produttivi in difficoltà.
La fonte dei dati citati è consultabile a questo link, nel contributo offerto dagli agronomi Luigi Catalano, Lorenzo Laghezza, Davide Digiaro e Concetta Gentile di Agrimeca Grape And Fruit Consulting S.R.L. al mensile “Rivista di frutticoltura e ortofloricoltura”.
Data di pubblicazione: 06/02/2021