Il comparto vivaistico, per sua natura, tra i differenti settori che compongono la filiera produttiva frutticola è quello da sempre caratterizzato da una forte innovazione, con un spinta propensione all’adozione e proposizione di nuovi prodotti e soluzioni per i frutticoltori.
Esso viene spesso preso come parametro per definire il grado di evoluzione e sviluppo dell’intero comparto agricolo di un paese e della sua capacità di affermarsi in ambito internazionale.
L’Italia in questo caso è tra i comprimari dello scenario mondiale, non solo europeo, e può vantare un settore vivaistico forte.
Il vivaismo frutticolo italiano alimenta la filiera nazionale, tra le più importanti in ambito comunitario, che vanta una serie di primati assoluti per volume e valore delle produzioni.
Passando al valore della produzione ortofrutticola nazionale, essa è stimata in 12,8 miliardi di euro, di cui ben 4,5 rappresentano la quota esportata, ossia il 13% di tutto l’export agroalimentare nazionale che è di 35 miliardi di euro.
Numeri che parlano da sé e che sottolineano la strategicità di un vivaismo forte ed efficiente per il ruolo fondamentale che svolge nell’ambito dell’intera filiera frutticola e per il suo contributo al flusso dell’export italiano.
Oltre che per l’innovazione, il materiale di propagazione può altresì essere fonte di diffusione di pericolosi agenti nocivi, oltre che di piante che non esprimono l’omogeneità genetica richiesta dai frutticoltori.
La certificazione genetico-sanitaria dei materiali di propagazione vegetale, rappresenta il mezzo principale per contrastare tali fenomeni, oltre a permettere la qualificazione delle produzioni vivaistiche che offre maggiori garanzie, permettendo di allargare gli orizzonti commerciali oltre i confini nazionali.
Ciò è la diretta conseguenza di programmi che sviluppano principi tecnici, organizzativi e procedurali normati da convenzioni internazionali.
Inoltre, essa rappresenta uno degli strumenti per la prevenzione ed il contrasto di malattie delle piante a diffusione epidemica, aspetto che negli ultimi decenni ha assunto grande importanza per la movimentazione delle piante su scala globale.
In Italia i programmi di certificazione partirono su base regionale negli anni ’80 per affrontare e dare un concreta risposta a problemi sanitari e di corrispondenza varietale delle specie fruttifere prodotte nelle diverse aree.
Successivamente, alla fine di tale decennio, l’allora Ministro dell’agricoltura e foreste, istituì la certificazione volontaria su scala nazionale, che prevedeva la stipula di apposite convenzioni da parte delle regioni che intendevano aderirvi, mentre l’operatività era centralizzata, a carico agli istituti sperimentali coinvolti.
L’evoluzione normativa comunitaria con l’istituzione del Passaporto delle piante CE e le norme di qualità – C.A.C. (Conformitas Agraria Communitatis), il mutato assetto organizzativo della struttura statale a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, la comparsa di nuovi organismi nocivi, oltre all’evoluzione tecnica dei metodi diagnostici, resero necessario una riorganizzazione del Servizio nazionale di certificazione nazionale.
Su tali argomenti e sulle nuove prospettive che si aprivano l’Accademia organizzò un’apposita giornata che ebbe luogo l’8 ottobre 2002.
A distanza di quasi 15 anni, c’è purtroppo da prendere atto delle difficoltà ad attuare i principi propri dell’attuale schema di certificazione volontaria che, per un’interpretazione ed applicazione non omogenea da parte delle Regioni, oltre alla presenza di emergenze fitosanitarie che interessano tutto il territorio nazionale, ne hanno limitato gli ambiziosi obiettivi.
Difficoltà che sembrano accrescere ed alimentare un clima di incertezza in previsione delle ulteriori modifiche che sarà necessario apportare a seguito dell’imminente entrata in vigore delle nuove norme comunitarie.
Articolo a cura del dott. Luigi Catalano
Fonte: georgofili.info
Data di pubblicazione: 09/06/2016